Liceali in Casa Generalizia: frontiere lasalliane e prove di resurrezione

Sono andato in Casa Generalizia ad accompagnare la mia classe, quinto liceo, alla mattinata di ritiro spirituale quaresimale.

8,30. Un po’ in ritardo, il mio giorno libero, il pensiero agganciato alle tante cose della quotidianità, alla routine della normalità, nella quale il soffio spirituale della missione educativa capita si strozzi nella cravatta del lavoro.

Il primo incontro è con Fratel Amilcare, che ci presenterà frontiere di opere lasalliane nel mondo. Pronto a vigilare sull’attenzione superficiale dei ragazzi, io già l’ho sentito più volte.

Inizia il racconto e la proiezione sullo schermo, una ad una, di una selezione di opere in Africa, in Asia, variegate, diverse, grandi, piccole, tutte trasmettono un senso di efficacia, l’essenziale recupero di una mancanza, il miracolo del cambiamento di vite umane.

E uomini ci sono dietro la nascita di queste opere, progetti disegnati sulle tracce della necessità concreta, più spesso della sofferenza, del dolore, della povertà, che la salvezza portata da questi eroi senza gloria ha vestito come una nudità, con il pudore senza ostentazione che restituisce ai bambini il dono di una vita normale.

La gloria è di Dio. Me ne convinco anche quando tra le righe emerge la questione dei costi ingenti per far sì che i sogni diventino mattoni, aule, banchi, libri, sorrisi. Uomini abili avranno trascorso notti inquiete a cercare le strategie per far tornare i conti.

Penso a quel prete sulle strade di Reims, che forse credeva di essere già sulla strada di Dio, ma Egli aveva altri progetti. Dopo tre centinaia di anni, migliaia di istituzioni, scuole, in ogni continente del mondo.

Come si può credere nella risurrezione, dopo aver visto il Cristo martoriato, crocifisso? Come si può credere in una società dove bambini sfruttati, violentati, armati, resi assassini senza sentimenti, trovino la loro riabilitazione, la loro possibilità di una vita felice? Lo vedo nelle immagini di volti che hanno più sorrisi dei nostri, vittime corresponsabili di una malinconia inconscia di aver comprato il benessere proprio al basso prezzo delle miserie di popoli sfruttati fino all’esaurimento anche della loro anima.

L’opera è di Dio. Questa è la nostra fede, senza la quale tutto diventa impossibile, ogni terra è arida, ogni guerra è sconfitta, i nostri pani e i nostri pesci non bastano mai.

Commetto un peccato di orgoglio nel credere di essere anche io stato scelto tra gli strumenti di quest’opera grande, dove piccolo è il mio contributo, perché piccolo il sacrificio. E questa casa mi sembra veramente il centro del mondo. In realtà è uno di quei momenti in cui sento il centro di me stesso. E ringrazio per questo. Sono dove vorrei essere.

Diamo ai nostri ragazzi la possibilità di scegliere chi essere, come diventare; rendiamoli partecipi di speranze che possano germogliare un futuro migliore, non con la retorica delle parole, ma con l’esperienza di chi ha già messo mano all’aratro, di chi ha aperto i libri che raccontano opportunità da non lasciare insolute, in aule che non sono vuote, ma aperte.

Anche il momento che segue, i giochi di ruolo con il Fratello americano e quello spagnolo, porta una leggerezza empatica inattesa. I ragazzi stanno al gioco. Ed è bello vederli quasi più bambini della loro adolescenza, in cui di solito prendono goffe pose da adulti; la loro ingenuità liberata dalle impurità inutili del mondo fuori; sentirli dire senza vergogna anche le loro contraddizioni; soprattutto sentirli ascoltare, anche se presto dimenticheranno, ma qualche seme rimarrà impigliato nelle pieghe nascoste dei loro sentimenti.

Persino nella pausa è piacevole vegliarli sparsi sul prato, subito ripresi dai per noi futili motivi, chiassosi, scomposti, ma almeno per qualche ora, mi sembra, al sicuro.

Michele Cataluddi
Docente di storia, filosofia e religione, Istituto ‘De Merode’ (Roma-Italia)

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